Esistono articoli che nascono dalla rassegna stampa. Altri, come questo, che partono da uno sfogo fatto su Instagram da una delle stiliste di moda sostenibile indipendente tra le più rispettate: Francesca Marchisio.

Ecco l’intervista/sfogo che Gaiazoe le ha fatto:
Hai fatto un post su Instagram in cui parli della sostenibilità della moda in maniera diversa dal solito, quasi nichilista. Uno sfogo che riguarda anche i piccoli marchi. Cosa è successo?
Succede che la realtà è diversa da come la percepiamo da punti di vista diversi.
Oggi si parla tanto di brands sostenibili, generalmente piccole realtà indipendenti, il cui problema è paradossalmente quello di non riuscire a sostenersi economicamente.
Se ci pensiamo bene la sostenibilità è una necessità che parte dal conto economico ed esistono esempi concreti e di successo che si basano su modelli di produzione circolare.
Quindi dove sta il vero problema? Il problema in questo caso è circolare ;).
La causa principale è l’”educazione di chi consuma”. Sono i diversi target a sostenere i brands con la loro domanda. Finché esisterà l’acquisto compulsivo di junk-fashion la catena tossica continuerà ad alimentare una competizione verso il basso da parte delle aziende non fast ma che producono il prodotto medio di grande distribuzione. Si focalizzano così sul prezzo che induce a produrre grandi quantità (non sostenibili a
più livelli) per far tornare i conti.
Quindi i nostri piccoli brands, anche quando sono realmente qualitativi e virtuosi, non possono risolvere i problemi esistenti perché rappresentato una minoranza del sistema. Oltre questo molti, soprattutto i più giovani, si illudono che riducendo i margini a zero potranno competere con i big e forse fare numeri. In realtà svalutano il proprio prodotto, riducendo sempre più gli investimenti fino, forse, a sparire.
Questo succede perché non c’è un sistema di reale rappresentanza e sostegno di queste realtà minori e frastagliate. Le potenti lobby della moda si reggono con i numeri e nessuno realmente rischia e sostiene veramente la causa con il rischio di perdere potere.
Si parla così del sogno senza agire veramente, si denuncia molto ma poi ci si abitua a tutto.
E’ un percorso complicatissimo e pieno di inganni.
Le aziende grandi, mainstream hanno davvero tutte le certificazioni? Questo le rende sostenibili?Esiste ancora tanto greenwashing, tu dici che sono solo le cheapchain a seguire questo tipo di
strategia, ma le grandi multinazionali?
Le grandi aziende si dividono in due macro gruppi.
Esistono i top brands che fanno parte di colossi che fatturano con gli accessori, licenze e finanza. Nonostante piccoli numeri nell’abbigliamento queste aziende sostengono le eccellenze della filiera manifatturiera e materiali di alto livello nel rispetto, quasi sempre, degli standard e certificazioni.
(Comunicazione e sfilate in giro per il mondo fanno invece parte di un altro discorso.)
Seguono aziende medio-grandi o le seconde linee dei top brands. Queste fanno parte del gruppo più ampio che fattura grandi numeri con l’abbigliamento. Spesso per mantenere prezzi competitivi non riescono ad attuare politiche realmente sostenibili (…).
Queste sono le aziende che potrebbero realmente cambiare le carte in tavola perché hanno le possibilità economiche per “comunicare e fare il green”.
Ci speriamo?
Infine c’è la cheap-chain su cui si è già detto molto, e colpevole finché le si darà potere acquistandola e imitandola.
Quale futuro per la moda sostenibile, vista adesso?
Credo che siamo in una fase di transizione dove uno dei compiti di chi, come me “progetta”, è anche quello di diffondere sapere e cultura.
Un incoraggiamento a creare know-how, a vendere e ad acquistare “valore aggiunto”.
Questa fase durerà anni in parallelo ai cambiamenti climatici più evidenti che porteranno anche i più scettici a regolarsi in sistemi di vita maggiormente virtuosi.
La mia visione non è nichilista ma un invito a fare i conti con la realtà. Un appello a tutti gli outsider medio piccoli o grandi che siano, a creare un’economia reale basata su prodotti di qualità accessibili e profitti adeguati che possano tradurre l’utopia della “sostenibilità” in realtà.
(Intervista raccolta da Viviana Musumeci, founder di Gaiazoe.life)